"Apoliticismo" e partiti

Scrive Gramsci nel Quaderno 14 (1932-1935): è un "carattere del popolo italiano" quello dell'"apoliticismo". Un carattere segnatamente delle masse popolari, perché invece l'élite fa sì politica ma in forma di "consorteria", di mere organizzazioni di interessi economici, personali, "corporativi". 
A ben vedere si tratta di un doppio "apoliticismo", dal basso e dall'alto che rende il "pressapoco" una sorta di categoria della politica italiana: "il pressapoco dei programmi e delle ideologie".

La conseguenza è un diffuso "settarismo", una politica fatta di punti di vista asfittici, contingenti, legati solo al "particulare", senza nessun autentico afflato universale. Una politica apolitica, appunto.
Il settarismo diventa anzi una sorta di "punto d'onore" che rende un tale politica tanto prossima "all'omertà della mafia e della camorra".
Un'analisi di 80 anni fa che sembra scritta oggi. A conferma di un male congenito alla politica italiana.
Gramsci la chiama anche "deteriorità" dei partiti politici italiani, una malattia che riguarda il Parlamento ma che si riscontra anche nelle istituzioni territoriali: "specialmente nei corpi elettivi locali".
Questo perché i partiti ebbero origine sulla discriminante elettorale, più che sui contenuti: "nacquero tutti sul terreno elettorale", compreso il partito socialista, che a Genova 1892, nota acutamente Gramsci, vide Turati distinguersi dagli anarchici proprio sulla questione del partecipare o meno alle elezioni.
Appunto i partiti italiani non presero le mosse dai bisogni delle "masse popolari", di cui avrebbero dovuto costituire "un'avanguardia, un'élite", ma come insiemi di "galoppini e maneggioni elettorali", Per partiti così bastarono poi dirigenti che erano "un'accolita di piccoli intellettuali di provincia" con le loro "poche idee vaghe, imprecise, indeterminate, sfumate".
La "deteriorità" del nostro sistema politico viene dunque da lontano e richiederebbe uno sguardo capace di scrutare in lontananza.

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