La fine della democrazia dei partiti
È appena uscito l’ultimo volume del
politologo irlandese Peter Mair, Governare
il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2016, pp. 166), un interessante contributo al dibattito sulla crisi
della democrazia contemporanea, con evidenti implicazioni anche per il caso
italiano.
La tesi di Mair è netta: la democrazia dei partiti è finita. Ma
sono le conseguenze teoriche e politiche che l’autore trae da questo fatto ad
essere particolarmente significative. Troppi infatti, anche a sinistra e
particolarmente in Italia, hanno considerato quasi una liberazione la fine dei
grandi partiti di massa, come se ora la democrazia potesse finalmente guadagnare
un superiore livello di mobilitazione, partecipazione, legittimazione, qualità
della classe politica, ecc. Mair invece mette sull’avviso: la fine dei partiti
importa una “frattura” proprio fra politica e democrazia. L’esperienza ormai di
due secoli dimostra infatti che non ci può essere democrazia (moderna) senza
partiti. Simul stabunt, simul cadent.
Senza i partiti i cittadini sono più deboli, non più forti, perdono sovranità,
occasioni di partecipazione, di decisione, di controllo. Così come si
impoverisce la politica che, senza quella forma di rappresentazione degli
interessi costituita dai partiti, sarà “sempre più lontana dal demos” (p. 6).
Del resto se ci si lamenta
dell’aumento dell’astensionismo elettorale in tutte le democrazie evolute non
ci si deve dimenticare che questo, come sottolinea Mair, è diretta conseguenza proprio
della crisi dei partiti: meno partiti, meno partecipazione, meno scambio
base-vertice, meno “governo democratico”.
“Democrazia senza demos” (p. 13) è dunque una condizione ormai
generalizzata in Occidente, ma determinata da un preciso insieme di concause,
le quali per altro hanno poi un inevitabile diretto effetto sulle dinamiche
politiche propriamente dette. James Burnham ha parlato in questo senso di “politica
della depoliticizzazione” (p. 56), cioè di un processo degenerativo che dipende
da precise scelte; l’esempio, ripreso anche da Mair, è quello del New Labour di
Blair, che reagì alla lunga stagione thatcheriana con lo spostamento a destra
del laburismo, rinunciando a ideologia e propositi socialisti, cioè ad ogni
“approccio partisan”. Un contributo
dunque, quello del Third Way, alla
crisi della democrazia, che invece proprio nell’“approccio partisan” ha il suo
cuore dinamico (come per altro insegna proprio la storia politica inglese).
La globalizzazione ha certo
implementato su scala planetaria certe tendenze, mentre in Europa vi si è
aggiunto il sistema politico della UE. Esso infatti da una parte prevede una modalità
di decisione costituita dal consensus
cioè dalla convergenza centrista di destra e sinistra, dall’altra ha una
organizzazione dei poteri articolata per strutture “non-maggioritarie” (come la
BCE o i “tecnici” della Commissione), che presuppongono ed alimentano la crisi
del principio di maggioranza. Basti solo ricordare che il “Consiglio dei
Ministri” dell’UE ha scelto “di lavorare principalmente a porte chiuse e in
modo non trasparente” (p. 140), togliendo regolarmente spazio alla
“responsabilità politica”.
Si è cercato, soprattutto in Europa
“continentale”, di rimediare a questo deficit di democrazia con coalizioni fra
loro alternative, ma anche qui la situazione non è migliorata, dato che la
competizione è stata spesso fra “coalizioni multi-partitiche in continuo
cambiamento e dove un chiaro confine fra governo e opposizione è spesso difficile
da tracciare” (p. 72). Ovunque si è dunque inaridita la “dinamica
governo-opposizione” (p. 144), il che lascia i sistemi democratici alla metà
del secondo decennio del XXI secolo in preda a spinte critiche che ne minano la
struttura.
Ma il punto decisivo (e il paradosso)
è che con la fine del comunismo la democrazia, avendo perso il suo insidioso
competitore globale, invece di rafforzarsi si è indebolita. Infatti in un mondo
in cui ormai “la democrazia è l’unica opzione sul tavolo, la democrazia stessa
– nella forma delle elezioni e della responsabilità elettorale – non deve più
essere difesa e promossa” (p. 138). Anzi può essere senz’altro attaccata, ad
esempio da ‘democratici’ come Fareed Zakaria che teorizzano la Illiberal Democracy, un sistema cioè in
cui la sovranità popolare viene sempre più ristretta affinché non ponga “un
limite troppo forte alla capacità dei governi di prendere decisioni per il bene
comune”. Insomma è saltato il “compromesso fra efficienza e consenso popolare”,
cioè fra élites di governo e masse.
Va detto che Robert Dahl già oltre
cinquant’anni fa aveva previsto la crisi della democrazia, paventando la
nascita di un “leviatano democratico”, di uno Stato sempre più lontano dai
cittadini, fondato sul “compromesso” fra parti avverse, su “élites pubbliche”
autoreferenziali, su un ceto di tecnici in grado di prescindere dalle regole e
i vincoli della politica (cfr. p. 147), fuori da ogni corretto “sistema di
responsabilità democratica”.
Di contro a questa tendenza di lungo
momento dei sistemi politici democratici Mair sottolinea la necessità di
recuperare e rivalorizzare il concetto di “opposizione”, a cominciare proprio
dall’Unione Europea dove praticamente da sempre “non esiste alcuna dinamica
governo-opposizione” (il che è una delle ragioni principali, sottolinea
giustamente Mair, della crescita esponenziale dei movimenti populisti,
anti-europei e anti-politici praticamente in tutto il continente).
Dunque se la democrazia vuole ridare
senso alla sua missione in un’epoca che non è più il ‘900 della gigantomachia
con i totalitarismi, ma pure è segnata da sfide radicali come quelle dell’antipolitica
e del terrorismo, deve recuperare in valore categorie
della politica come “partito”, “opposizione”, “conflitto”, “alternativa”, “sovranità
popolare”. Solo così il XXI secolo potrà conoscere una nuova stagione della
politica capace di governare un mondo percorso da troppi animal spirits.
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