News from Sverige 2)
Pubblico la traduzione di questo saggio di Karin Pettersson, Senza socialdemocrazia il capitalismo divorerà se stesso ("Social Europe" - febbraio 2017).
E' una tragedia, ma non
c'è niente da fare: nel momento in cui sarebbe tanto più necessaria la
socialdemocrazia è al suo minimo storico.
C'è ancora un futuro per
progressisti? Ci sono quattro lezioni per il futuro che la sinistra ha bisogno
di capire, e quattro modi di pensare la strada da percorrere.
Nel 1979 il demografo
francese Jean Fourastié ha coniato la formula Les Trentes glorieuses, per il periodo tra la fine della seconda
guerra mondiale e la prima crisi petrolifera del 1973. E' stato un periodo di
sviluppo economico, di aumento del tenore di vita e di crescita dei salari
reali nella parte occidentale d'Europa e negli Stati Uniti.
Più di 35 anni dopo,
molti politici di sinistra stanno ancora perdendo tempo a cullarsi nella
nostalgia, a sognare ad occhi aperti quel periodo. Ma l’età dell’oro è finita
da un pezzo e quel mondo non esiste più.
Forse la caratteristica
più unica del dopoguerra era l’equilibrio raggiunto tra lavoro e capitale. I
sindacati contrattavano con i datori di lavoro per i salari. L'aumento dei
salari per i lavoratori portava a una maggiore domanda che in cambio creava
profitti per gli imprenditori. I governi intanto sostenevano il regime con le
politiche economiche keynesiane. Questo mentre i politologi discutevano se
questo accordo è stato raggiunto attraverso la benevolenza dei capitalisti o
pressione dal lavoro.
La realtà è più
complicata di così. Per prendere in prestito da Peter Hall, tre serie di
fattori hanno reso questo equilibrio di potenza possibile.
In primo luogo, dopo la
guerra la memoria di un intenso conflitto di classe era fresca nella mente del
pubblico. I politici a destra e a sinistra convenivano nella necessità di
politiche che aumentassero la qualità della vita per i più. In molti paesi
proprio i governi conservatori e di destra sono stati fondamentali per
l'attuazione di ammortizzatori sociali e politiche di welfare.
In secondo luogo, gli
economisti hanno suffragato l'idea che i governi fossero in grado di garantire
la piena occupazione. Questa formula ha incoraggiato partiti tradizionali della
sinistra a fare la pace con il capitalismo invece di cercare alternative più
radicali.
Infine, vi è stato un
percorso elettorale per la creazione di uno stato sociale più forte. La
sinistra politica che rappresentava la classe operaia capì che poteva
compromettersi con i partiti della classe media su un programma politico che
offrisse prestazioni sociali e politiche economiche attive.
Nessuna di queste
condizioni oggi è più disponibile.
Non si tratta di libero scambio, stupido
Il successo dei populisti
sia a destra sia a sinistra potrebbe ingannare, facendo pensare che bastasse
chiudere le frontiere per tornare automaticamente ai giorni felici. Per essere
chiari: molti dei sostenitori del libero scambio hanno sottovalutato gli
effetti negativi del commercio globale. La politica ha completamente fallito in
tutti i tentativi atti a cercar di compensare i propri perdenti.
La grande storia degli
ultimi 30 anni riguarda piuttosto qualcos'altro.
La vera grande fase di
cambiamento nelle società capitaliste occidentali è stata quella del passaggio
dall'industrialismo alla post-industrializzazione. Rispetto a questo, tutto il
resto sono solo increspature sulla superficie. Il fatto che i lavoratori siano
stati massicciamente spostati dalla catena di montaggio al settore dei servizi
è qualcosa che ha cambiato il modo di funzionare dell'economia, ma anche le
relazioni di potere, le identità, i modi del fare politica.
Nel dopoguerra i
sindacati servivano soprattutto a garantire i diritti dei lavoratori. Con il
passaggio alla economia dei servizi, il loro potere è diminuito. Il risultato è
che il ruolo dei sindacati come contrappesi all'influenza delle multinazionali
si è sensibilmente indebolito, così come la loro capacità di fornire sostegno
politico ai partiti socialdemocratici. Nei posti di lavoro di oggi spesso si
richiedono elevate competenze, almeno quanto si offrono bassi salari e poca
sicurezza. E' difficile trovare posti di lavoro "buoni" con basso
livello medio di abilità. Questi mercati del lavoro importano alte
disuguaglianze e non solo in termini di reddito.
Un altro cambiamento
importante riguarda l'istruzione. Oggi circa la metà della popolazione nei
paesi occidentali ha una laurea - di
solito come conseguenza di politiche poste in essere dai partiti
socialdemocratici. Questo riguarda i valori e il senso di identità delle
persone. Ma è anche qualcosa che indebolisce ulteriormente il voto di classe.
Troppo spesso si trascura
che una scossa fondamentale per l'ordine economico del dopoguerra è stata
rappresentata dal cambiamento che si è verificato allorché le donne nell'arco
di una generazione hanno smesso di essere casalinghe per competere con gli
uomini nel mercato del lavoro. Il discorso pubblico di oggi è ossessionato dall'immigrazione,
ma questa sfida è niente in confronto alla portata del cambiamento causato
dalla crescita delle donne come concorrenti degli uomini sul posto di lavoro.
Le modifiche descritte
qui sono fondamentali e impossibili da invertire. Hanno avuto non solo enormi
conseguenze economiche, hanno anche messo in discussione e modificato le
identità, i valori e la politica in un modo che si riverbera ancora nelle
nostre società.
E si tratta anche di
qualcosa che investe direttamente la politica.
L'aumento del populismo
non è solo una reazione ai drammatici ma inevitabili cambiamenti strutturali.
Deve anche essere inteso come la conseguenza delle politiche neoliberiste che
hanno ribaltato attivamente l'equilibrio tra capitale e lavoro.
Alla
fine della 2° guerra mondiale il sociologo Karl Polyani notoriamente ha scritto
che "una società di puro libero mercato è un progetto utopico, perché la
gente sempre avrebbe resistito al processo di sua riduzione a merce". La
convinzione di Polyani era che i mercati senza vincoli e la completa
mercificazione degli esseri umani avrebbero portato al fascismo. Il suo libro La grande trasformazione è stato
pubblicato proprio prima dell'inizio del dopoguerra, cioè prima della
realizzazione di quelle reti sociali di sicurezza e dei sistemi di welfare
chiamati a rispondere proprio alla paura denunciata da Polyani.
La
ragione per cui queste politiche potettero essere realizzate era probabilmente
nel fatto che i politici di destra come di sinistra avevano allora
consapevolezza dei pericoli costituiti dalla povertà e dalla disoccupazione di
massa. Come lo storico Tony Judt ha osservato, nel dopoguerra il piano Marshall
ha avuto certo conseguenze economiche, ma la crisi che tendeva a contrastare
era in primo luogo quella politica. Lo scopo era quello di evitare che l'Europa
ricadesse nel fascismo e nel totalitarismo.
Con
l'aumento del neoliberismo questa lezione è stata dimenticata. Negli anni '80 e
'90, lo spettro dell'inflazione è diventato l'obiettivo principale di tutti i
partiti di governo.
Allo
stesso tempo mentre i sindacati perdevano forza, ne guadagnava il capitale
organizzato e mobilitato, così come le teorie economiche del fondamentalismo di
mercato. Si sono così imposte politiche che hanno determinato il disfacimento
del contratto sociale. Di contro hanno preso l’egemonia politiche economiche
che hanno visto la convergenza di partiti di sinistra e di destra
tradizionalmente antagonisti. L'effetto è stato che una grande parte della loro
base elettorale operaia è stata lasciata senza voce.
Il
risultato di questi cambiamenti strutturali e delle relative politiche
neoliberiste è stato l'esplosione delle disuguaglianze, descritta al meglio dall'economista
francese Thomas Piketty. La sua ricerca mostra infatti come la relativamente
equa distribuzione della ricchezza risultato delle istituzioni del dopoguerra,
stia oggi scomparendo. In un mondo in cui il rendimento del capitale sta
superando il livello di crescita, l'accumulo di attività da parte del già ricco
ha direttamente determinato la crisi di idee stimolanti quali quelle di equità
e giustizia, le stesse che avevano costituito i mattoni fondamentali delle
democrazie occidentali. Passo dopo passo, il capitalismo si sta mangiando
quelle condizioni fondamentali, con conseguenze potenzialmente drammatiche per
la stabilità sociale e la democrazia liberale.
La
fine della crescita
Uno
dei presupposti fondamentali del nostro ordine politico è stata per decenni l'idea
di livelli permanenti e stabili di crescita. Ora questa idea è in discussione
oggi. Non è solo di Piketty la previsione di più bassi livelli di crescita per
il prossimo futuro. L’economista americano Robert Gordon suggerisce infatti che
i rapidi progressi compiuti nel corso degli ultimi 250 anni potrebbero
rivelarsi un periodo unico e irripetibile della storia umana.
In
effetti la crescita può essere sia funzione di aumenti di produttività, sia di
aumento della popolazione. Come mostrato da Gordon, i guadagni di produttività derivanti
dalla rivoluzione di Internet sono stati minimi negli ultimi anni. A differenza
delle invenzioni della rivoluzione industriale, i cambiamenti tecnologici di
oggi non sembrano aumentare radicalmente la produttività del lavoro e il tenore
di vita. Allo stesso tempo, le popolazioni di molti paesi europei stanno
invecchiando rapidamente. Con ogni probabilità, i compromessi politici della
prossima generazione dovranno essere effettuati in un contesto di risorse
scarse e di minore crescita. La stessa politica sotto tali restrizioni sarà
molto diversa da come la abbiamo conosciuta.
Non
rende poi le cose più facili il fatto che i paesi all'interno dell'UEM abbiano
le mani legate da una combinazione di alto debito e di vincoli di bilancio. Il
politologo tedesco Walter Streeck ha chiamato questo "lo Stato di
consolidamento", una situazione in cui i governi percepiscono che la loro
unica possibilità di stabilizzare il budget è quella di fare ulteriori tagli
nelle reti di sicurezza sociale.
Allo
stesso tempo, il mercato del lavoro è soggetto a grandi cambiamenti. Alcuni
economisti ritengono che l'automazione potrebbe fondamentalmente destabilizzare
le nostre società e spazzare via un gran numero di posti di lavoro del ceto
medio, modificando radicalmente sia i mercati del lavoro sia il tessuto della
società. Altri sono sostenendo che l'aumento di automazione alla fine porterà
sia alla domanda di nuovi prodotti sia ad un maggior numero di posti di lavoro
creati.
Qualunque
sia il punto finale, i cambiamenti tecnologici stanno mettendo grande pressione
sui mercati del lavoro. Come minimo, siamo all'inizio di un periodo di
trasformazione molto difficile, in cui verranno superate quelle che sono le
competenze tradizionali di tanta gente. Questi sviluppi non faranno che
accelerare la disuguaglianza già esplosa e minare ulteriormente un contratto
sociale già fragile.
Il
ritorno dello Stato
Non
esistono soluzioni nazionali per le grandi questioni del nostro tempo: il
cambiamento climatico, la migrazione o la crisi del capitalismo globale.
L'obiettivo dei socialdemocratici deve essere una società aperta, la
cooperazione internazionale e il flusso di idee e di persone attraverso le
frontiere. Ma alla fine, la politica è locale. E in un periodo in cui la gente
sta perdendo la fiducia nella politica, i leader progressisti devono tornare
agli elettori e cercare un nuovo mandato. Questo è ciò che i partiti populisti
hanno capito, ed è un mistero che la sinistra sia stata così lenta a
rispondere.
La
buona notizia è che lo stato sociale si è mostrato più resistente di quanto si
potesse pensare all'inizio dell'era neoliberista, mentre le diversità nei
livelli di redistribuzione, di tassazione e di giustizia sociale restano grandi.
Non c'è una convergenza istituzionale per un unico modello basato su tasse basse
e stato sociale minimo. E' infatti un mito neoliberale che la competitività dei
paesi e le prestazioni economiche dipendano da tasse basse e mercati
deregolamentati. Al contrario, il successo economico è raggiungibile in modi diversi.
Questo crea spazio per variazioni nelle politiche nazionali e lascia aperta la
via per un modello di sviluppo progressivo.
Il
problema dell’immigrazione
È
il populismo una reazione contro l'insicurezza economica nelle economie
post-industriali - o contro i valori liberali e progressisti? Scienziati della
politica, come Pippa Norris di Harvard hanno trovato una risposta: i valori non
esistono separatamente e indipendentemente dalle realtà economiche o dai ritmi di
cambiamento in campo tecnologico.
E’
importante riconoscere, tuttavia, che la tendenza a lungo termine pare essere
che i valori stanno cambiando proprio nella direzione di un rafforzamento della
la democrazia, della tolleranza e dell'uguaglianza di genere. Un movimento
politico che voglia avere un suo respiro deve tenere presenti queste tendenze.
Viviamo
in un'epoca di globalizzazione e di migrazioni. Allo stesso tempo, lo stato
nazionale resterà per il prossimo futuro il principio organizzativo indispensabile
alla realizzazione della politica. Anche nel nuovo tempo confini e controlli
alle frontiere restano necessari, ma politiche ottusamente restrittive
sarebbero non solo immorali, ma anche economicamente miopi. Una delle poche
soluzioni al dilemma di una crescita ancora troppo lenta è proprio l'immigrazione.
Un
singolo paese non può accettare un numero illimitato di profughi. Ma proprio
come l'apertura dei mercati del lavoro alle donne ha migliorato l'uguaglianza e
favorito la crescita, così per le politiche migratorie i socialdemocratici
devono imporre l’idea della inviolabilità dei diritti umani - in combinazione
con una strategia lucida di come l'apertura e uguaglianza possono procedere
insieme.
Contrariamente
a quanto si pensa, quanto più elevati sono i livelli di redistribuzione, quanto
più alto è il consenso da parte degli elettori. Tasse più alte e benefici più generosi
sono in verità compatibili con visioni del mondo utili a sostegno di queste
politiche (come Peter Hall sostiene in un suo prossimo saggio). Questo ha
conseguenze nel modo in cui possiamo ancora progettare politiche tali da
mantenere intatta la solidarietà.
Lo
stato sociale universale è stato contestato in molti paesi negli ultimi 30
anni. L'argomento usato era che l'universalità e alti livelli di
redistribuzione avrebbero ridotto gli incentivi al lavoro e ostacolato la
crescita - naturalmente non è vero. I politici di destra e di sinistra hanno
risposto all'immigrazione allontanandosi da vantaggi come i diritti, verso rigidi
requisiti di ammissibilità lungo linee etniche. Per i sostenitori della
solidarietà è invece una strada pericolosa da percorrere, non solo perché è
moralmente sbagliata, ma perché a lungo termine mette a rischio i principi di
universalità che rendono possibile la ridistribuzione.
E
invece uno stato sociale universale potrà solo che avere notevoli benefici in
fatto di solidarietà agli immigrati - e, quindi, di integrazione e di apertura.
Nel
lungo periodo, la migrazione deve essere affrontata a livello globale. Nel
periodo più breve, la piattaforma dei progressisti deve stare su due gambe -
politiche migratorie generose (ma non illimitate), combinate con una difesa
inequivocabile dell’universalità. In caso contrario, il progetto democratico
sociale stesso sarà compromesso.
Il
dilemma
Già
negli anni '80, il sociologo danese Gösta Esping-Andersen si è chiesto come
economie post-industriali potessero rimodellare le politiche elettorali. Egli
ha sostenuto che la classe sociale tradizionalmente intesa stava diventando
sempre più irrilevante in fatto di comportamenti di voto; il che pregiudicava
il compromesso storico tra il lavoro e la classe media, che aveva reso
possibile lo stato sociale. Da allora, questo punto di vista è stato
effettivamente contestato e rivisto.
I
politologi Jane Gingrich e Silka Häusermann hanno dimostrato che la classe
continua ad essere un buon predittore di preferenze politiche e orienta le
scelte - sia pur lungo nuove linee.
E’
vero che gli elettori della classe operaia tradizionali costituiscono una quota
ormai ridotta di elettori e che quindi il sostegno per la sinistra è diminuito,
ma allo stesso tempo è cresciuta la classe media ed ha adottato valori più
progressisti.
Questo
è potenzialmente e, almeno parzialmente, una buona notizia per i
socialdemocratici. Quando l'elettore costituito dal blocco della classe operaia
si riduce, la classe media può sostituirlo come protettore delle politiche di
welfare e progressive.
Il
vero dilemma per la socialdemocrazia è che i suoi potenziali elettori sono
divisi in due blocchi elettorali con valori e interessi diversi. Da un lato,
gli elettori della classe operaia, che favoriscono politiche redistributive
volte alla parità di risultato, d’altra parte, la classe media progressiva
crescente, che favorisce investimenti sociali, ma non è interessata alla parità
di reddito.
Quindi
quali sono le opzioni elettorali per i progressisti? Una è quella di
assecondare la classe operaia seguendola sulla strada dello sciovinismo del
benessere e della nostalgia. Possibili partner della coalizione in questa
strategia sarebbero i partiti populisti e conservatori. Il problema (a parte
rinunciare ai valori fondamentali di uguaglianza e di apertura) è che la classe
media progressiva con ogni probabilità abbandonerebbe la nave.
Un'altra
opzione è quella di ridefinire il progetto progressivo come di educazione e non
di ridistribuzione. Questa è stata la risposta degli anni '90 e in questa
strategia elettorale partiti verdi e liberali potrebbero essere parte della
coalizione - con il rischio però di lasciarsi alle spalle la classe operaia.
Un
terzo modo sarebbe quello di riconoscere che un progetto democratico sociale
che lasci fuori la classe operaia - anche se in contrazione - perde la sua
ragion d'essere, mentre invece la lotta necessaria contro la crescente
disuguaglianza crea sempre nuove possibilità di forgiare una coalizione tra il
lavoro e classe media.
Anti-elitismo,
non Identità Politica
"Anti-elitismo"
è un concetto complicato e pericoloso in politica. Ma uno dei motivi per cui è purtuttavia
così potente è che cattura comunque alcuni dei problemi che abbiamo di fronte
oggi.
E’
importante capire che l'ascesa del populismo è una risposta razionale all’aumento
della disuguaglianza e al fallimento della sinistra nella capacità di articolare
politiche economiche credibili, capaci di sfidare il neoliberismo.
La
sinistra deve per una questione di principio difendere, promuovere e proteggere
l'espansione dei diritti per le donne e le minoranze. Ma l'obiettivo principale
per la politica progressista non può essere quello di vincere una discussione
in una guerra culturale, deve essere quello di creare politiche capaci di
cambiare le strutture di potere.
Da
un lato, la politica deve svolgere un ruolo più attivo nella creazione di un nuovo
equilibrio tra capitale e lavoro in un mondo dove le forze che producono disuguaglianze
sono sempre più potenti. Ma una piattaforma politica di tasse più alte e più
investimenti pubblici non sarà sufficiente. Come il politologo Bo Rothstein ha
dimostrato, equità e pari opportunità sono elementi di vitale importanza per
politiche volte a (ri-)costruire la fiducia e il capitale sociale, a loro volta
componenti necessari per una politica progressista. I socialdemocratici hanno
bisogno di continuare nella lotta per l’uguaglianza, cioè tanto contro il rent-seeking
e la corruzione economica, quanto per la redistribuzione del reddito.
In
questo modo sarebbe possibile forgiare una coalizione tra il lavoro e la classe
media attraverso una versione di anti-elitismo che si basa su un'idea di
equità, piuttosto che di risentimento.
Il
punto debole di questa strategia è che essa richiede modifiche sostanziali per rendere
credibile una democrazia sociale; richiede ad esempio di essere più ambiziosi
in fatto di politiche di tassazione della ricchezza e del capitale, così come
nella regolamentazione dei mercati finanziari. Ma comporterebbe anche la
capacità di prendere sul serio questioni che per lo più invece i partiti
socialdemocratici hanno abbandonato, come ad esempio gli stipendi per i
politici e i dirigenti aziendali. E ciò significherebbe porsi il problema che oggi
i partiti socialdemocratici in larga misura si limitano ad organizzare il
consenso e a trarre i propri membri soprattutto dalla classe media.
Solo
la sinistra può ormai salvare il capitalismo
E’
evidente che ormai né il liberalismo, né il conservatorismo, né il populismo di
destra hanno le risposte per affrontare il tema centrale di oggi: la
disuguaglianza che esplode e che mina la crescita, la democrazia e il contratto
sociale. Non si possono neanche più difendere i valori liberali con il
protezionismo e la chiusura delle frontiere agli immigrati. E’ dunque evidente
che oggi, più che in passato, un contrappeso al crescente potere del capitale è
necessario proprio se si vogliono salvare la democrazia liberale e lo stesso
capitalismo. Il mondo è cambiato. Gli elettori capiscono questo, e sono alla
ricerca di politici capaci di pensare in grande. I socialdemocratici in passato
hanno spesso parlato di primato della politica. Se vogliono ancora avere una
parte nel prossimo capitolo della storia devono agire proprio su questa
convinzione; solo così potranno evitare il rischio di scomparire.
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